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La zona grigia del femminicidio: analisi della complicità silente e degli strumenti di contrasto normativo. "

17/10/2025 18:38

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La zona grigia del femminicidio: analisi della complicità silente e degli strumenti di contrasto normativo. "Sapevano tutti." Leggi l'analisi sulla complicità che permette di uccidere.

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La zona grigia del femminicidio: analisi della complicità silente e degli strumenti di contrasto normativo. "Sapevano tutti." Leggi l'analisi sulla complicità che permette di uccidere.

 

Introduzione. 

Questo articolo si addentra nella zona grigia che precede il femminicidio: quella della complicità silente. L'obiettivo è analizzare come l'inazione della rete sociale – parenti, amici, vicini – non sia una semplice fatalità, ma un fattore determinante che permette a una violenza annunciata di compiersi. Attraverso l'esame delle dinamiche psicologiche, dei dati criminologici e degli strumenti normativi esistenti, dimostreremo come il silenzio di chi sa trasformi una comunità di potenziali soccorritori in un pubblico inerte, rendendo vane le armi che la legge mette a disposizione per prevenire la tragedia.

 

Sezione 1: L'anatomia del silenzio: la rete sociale come testimone inerte

Il femminicidio non si manifesta quasi mai come un fulmine a ciel sereno. Al contrario, rappresenta l'esito letale di un'escalation di violenza progressiva e, in molti casi, visibile. È un evento che matura nel tempo, alimentato non solo dalla furia dell'aggressore ma anche dal silenzio di chi osserva. Questa sezione si propone di de-costruire le dinamiche sociali che circondano un tipico caso di femminicidio, utilizzando l'arco narrativo di un abuso crescente come paradigma per analizzare il fallimento collettivo della rete sociale della vittima. La tesi fondamentale è che il femminicidio è la conclusione di un copione noto, una sequenza di atti violenti resi possibili dall'inazione di una comunità pienamente consapevole.

 

1.1 Il femminicidio come "tragedia annunciata": dalla violenza psicologica all'escalation fisica

La progressione archetipica della violenza di genere non inizia con un atto fisico, ma con forme più subdole e pervasive di abuso. Il primo stadio è quasi sempre caratterizzato dal controllo coercitivo, una strategia mirata a isolare la vittima e a erodere la sua autonomia. Comportamenti come la gelosia ossessiva, il controllo delle comunicazioni, le limitazioni alla libertà personale e la denigrazione costante vengono spesso mascherati, sia dall'aggressore che, inizialmente, dalla vittima stessa, come manifestazioni di un "amore intenso" o di un "eccesso di protezione". Questa normalizzazione della prevaricazione psicologica costituisce il terreno fertile su cui la violenza futura attecchirà.

Successivamente, emergono quelli che la criminologia definisce "reati spia": episodi criminali che, pur essendo di minore gravità se considerati singolarmente, fungono da indicatori di un'escalation imminente e di un aumento del livello di rischio. Atti di stalking, minacce verbali esplicite, danneggiamenti di proprietà (come tagliare le gomme dell'auto o rompere il telefono della vittima) e aggressioni fisiche di lieve entità sono segnali inequivocabili che il controllo psicologico sta per trasmutare in violenza fisica conclamata. In questa fase, il comportamento del persecutore diventa palesemente ossessivo, finalizzato a terrorizzare la vittima e a riaffermare il proprio dominio, specialmente a seguito di un tentativo di separazione o di allontanamento da parte di quest'ultima.

È cruciale comprendere che questi atti non sono incidenti isolati, ma componenti di una strategia del terrore coerente e riconoscibile. Sono eventi che lasciano tracce, che vengono confidati agli amici, raccontati ai familiari, notati dai colleghi o uditi dai vicini di casa. La vittima, intrappolata in un ciclo di paura e spesso manipolata psicologicamente, può tentare di minimizzare la gravità della situazione, talvolta per un meccanismo di auto-protezione, talvolta per proteggere i propri figli o per un senso di vergogna e fallimento. Questo suo tentativo di normalizzare l'inaccettabile è, in sé, uno dei sintomi più evidenti della sua condizione di prigionia psicologica e fisica, un segnale che la sua capacità di giudizio e di reazione è ormai compromessa dalla violenza subita.

 

1.2 Il paradosso del "sapevano tutti": l'ipocrisia della consapevolezza postuma

L'aspetto più agghiacciante e moralmente inaccettabile nell'analisi di un femminicidio è la scoperta che una vasta rete di persone sapeva. Amici, parenti, colleghi e vicini erano depositari delle paure della vittima, testimoni diretti delle minacce, a conoscenza di percosse e umiliazioni. Eppure, questa conoscenza diffusa è rimasta un segreto tossico, confinato nella sfera privata, incapace di tradursi in un'azione salvifica.

Questa omertà pre-mortem esplode in una parata di ipocrisia subito dopo l'omicidio. Improvvisamente, le stesse persone che hanno scelto il silenzio si affannano a rilasciare dichiarazioni ai media, descrivendo l'evento con la formula auto-assolutoria della "tragedia annunciata". Questa espressione non è una constatazione, ma un tentativo di lavarsi la coscienza. Il termine "tragedia" evoca l'ineluttabilità del fato, mentre "annunciata" ammette una pre-cognizione che però non ha generato alcuna responsabilità. In questo modo, i testimoni inerti si trasformano in spettatori impotenti di un destino che loro stessi, con il loro silenzio, hanno contribuito a scrivere. È un'assoluzione postuma che sposta il focus dal tempo in cui si poteva agire al momento in cui non c'era più nulla da fare.

Questa non è un'impressione soggettiva, ma un fatto sociale documentato. Un recente sondaggio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Criminologia (AIPC) ha messo a nudo questa realtà: nel 61% dei casi di violenza, almeno un parente o un amico era a conoscenza della situazione. Questo dato non è solo una statistica, è un atto d'accusa. Rivela l'esistenza di un'enorme riserva di informazioni salvavita che, nella maggior parte dei casi, marcisce nel sottobosco della paura e dell'indifferenza, senza mai raggiungere chi potrebbe intervenire.

 

1.3 Le giustificazioni dell'inazione: il catalogo degli alibi morali

Perché, se così tanti sanno, così pochi agiscono? Le giustificazioni raccolte dal sondaggio AIPC non sono attenuanti, ma un catalogo di alibi che svelano le patologie culturali che permettono alla violenza di prosperare. La "paura di ritorsioni" è l'alibi più comune. Sebbene la paura sia un sentimento umano, essa diventa una scusa inaccettabile quando si sceglie la propria tranquillità a scapito della vita di un'altra persona.

Ma l'alibi più vile e culturalmente radicato è la convinzione che la violenza domestica sia una "questione privata". Questo non è un principio di rispetto, ma un dogma omertoso che consegna alla vittima le chiavi della sua prigione e garantisce all'aggressore un'enclave di impunità. Chi si nasconde dietro questo pretesto non sta rispettando la privacy, sta deliberatamente ignorando un crimine, rendendosi complice morale di ciò che accadrà. Infine, l'aver "sminuito la gravità" della situazione non è una svista, ma una forma di colpevole miopia. In un'epoca in cui l'escalation della violenza di genere è un copione tragicamente noto, non capire la gravità dei "reati spia" è una scelta, non un errore.

Il dato più inquietante emerso dal sondaggio è che la maggioranza di coloro che sapevano ma non sono intervenuti erano uomini.

L'insieme di questi dati rivela una verità brutale: lo Stato ha costruito un sistema di allarme, ma la cultura ha insegnato alle persone a non tirare la leva. Il 61% di consapevolezza è un potenziale enorme per la prevenzione, ma le barriere dell'indifferenza e degli alibi culturali lo rendono sterile, trasformando una comunità di potenziali soccorritori in un pubblico di spettatori.

 

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Sezione 2: Il dovere di agire: l'arma legale ignorata dalla complicità sociale

Di fronte al muro di omertà eretto da chi "sapeva ma non ha parlato", è imperativo demolire l'alibi più grande: "non potevo fare nulla". La legge italiana, infatti, fornisce a chiunque un'arma potente e decisiva, la cui mancata attivazione non è una semplice dimenticanza, ma una scelta che confina con la complicità morale.

Il cuore della questione risiede nella natura di reati come i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), che sono procedibili d'ufficio.1 Questo tecnicismo legale ha un significato devastante nella sua semplicità: lo Stato ha l'obbligo di intervenire non appena viene a conoscenza del reato, anche contro la volontà della vittima terrorizzata.2 Il legislatore ha previsto questo meccanismo proprio perché sa che una donna soggiogata dalla paura spesso non ha la forza di denunciare.

Ed è qui che entra in gioco la responsabilità di chi osserva. L'articolo 333 del Codice di Procedura Penale è un macigno sulla coscienza di ogni testimone silente: "Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia".3

Non si tratta di un obbligo penalmente sanzionato per il privato cittadino – se non in casi eccezionali – ma di un potere conferito dalla legge.4 Un potere che diventa un dovere morale e civico inderogabile. Chiunque, un amico, un vicino, un parente, ha la facoltà di recarsi presso una qualsiasi caserma dei Carabinieri o della Polizia e segnalare i fatti di cui è a conoscenza. Quell'atto, quella singola segnalazione, è la chiave che avvia l'intero motore della giustizia, attivando automaticamente il "Codice Rosso" e trasferendo il peso dell'azione dalle spalle fragili della vittima a quelle dello Stato.

Non avvalersi di questo potere non è un atto neutro. È una decisione attiva. Significa scegliere di lasciare la vittima sola nella sua prigione di paura. Significa vanificare lo strumento di protezione più importante che la legge ha concepito per salvarla. L'inazione di chi sa non è semplice passività; è un'omissione che arma la mano dell'assassino, garantendogli il tempo e l'impunità necessari per portare a termine la sua escalation di violenza. È il silenzio che uccide.

 

Sezione 3: Gli strumenti dello stato: un sistema di protezione condizionato

L'Italia ha sviluppato un arsenale di strumenti normativi e operativi per contrastare la violenza di genere. Sebbene sofisticati, questi meccanismi di protezione condividono una vulnerabilità fondamentale: per attivarsi, necessitano di un segnale iniziale, una scintilla che deve provenire dall'esterno.

Il Codice Rosso (Legge n. 69/2019) rappresenta il protocollo d'emergenza del sistema. Una volta ricevuta una notizia di reato, impone alle forze dell'ordine di comunicarla immediatamente al Pubblico Ministero e a quest'ultimo di ascoltare la vittima entro tre giorni.7 È una procedura pensata per la massima celerità, con l'obiettivo di valutare il rischio e adottare misure protettive urgenti. Tuttavia, è uno strumento reattivo: senza una denuncia o una segnalazione, il "codice" non viene mai attivato e la sua efficacia rimane puramente teorica.

A un livello più preventivo opera il protocollo SCUDO, un applicativo interforze che funziona come una memoria storica degli interventi.9 Permette agli agenti, durante un intervento per una lite o un disturbo, di verificare se a quell'indirizzo o a carico di quelle persone ci siano stati episodi precedenti, anche se non sfociati in una denuncia.11 Questo strumento è prezioso per riconoscere i pattern di violenza seriale e valutare un rischio che altrimenti apparirebbe come un incidente isolato. La sua efficacia, però, dipende dalla meticolosità con cui ogni singolo intervento viene registrato dagli operatori.

Infine, il Sistema di Indagine (SDI) è la banca dati nazionale dove vengono segnalati i cosiddetti "reati spia" (stalking, minacce, percosse).12 L'inserimento di uno di questi reati fa scattare un allarme, segnalando agli investigatori una situazione potenzialmente a rischio di escalation. Anche in questo caso, il sistema di allerta predittiva è potente ma cieco: se il reato spia non viene denunciato, la "spia" non si accende.

Nel complesso, questi strumenti formano un'infrastruttura di protezione potenzialmente efficace, ma la loro architettura rivela una dipendenza critica dalla prima segnalazione. Sono ingranaggi di un motore potente che, senza il carburante della denuncia, è destinato a rimanere inerte.

 

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Sezione 4: La prova sociale: i dati AIPC come atto d'accusa

Se ancora sussistesse qualche dubbio sulla portata del fallimento sociale, i dati del sondaggio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Criminologia (AIPC) lo cancellano, emettendo una sentenza inappellabile sulla nostra indifferenza collettiva. Questi non sono numeri astratti; sono la quantificazione della nostra complicità.

Il primo dato è una condanna: nel 61% dei casi, almeno un conoscente o un parente era a conoscenza della violenza. La violenza non è invisibile. È un segreto di Pulcinella, un dramma che si consuma su un palcoscenico illuminato a giorno, davanti a un pubblico che sceglie di non guardare.

Il secondo dato è, se possibile, ancora più grave: di tutte le persone che sapevano, un agghiacciante 39% ha ammesso di non aver fatto assolutamente nulla. La combinazione di queste due cifre è devastante. Significa che in quasi due casi su cinque, la conoscenza del pericolo si è tradotta in un'inazione totale. Quante vite si sarebbero potute salvare se solo una frazione di quel 39% avesse agito?

L'analisi demografica aggiunge un ulteriore, inquietante livello di lettura: la maggioranza di coloro che non sono intervenuti erano uomini.

Le giustificazioni addotte sono un insulto all'intelligenza e alla morale: la paura di ritorsioni, la convinzione che fosse una "questione privata", la sottovalutazione della gravità. Questi non sono motivi, sono alibi. Alibi che crollano di fronte alla realtà di una donna uccisa. I dati AIPC non sono semplici statistiche. Sono il conteggio delle opportunità mancate, delle chiamate non fatte, delle responsabilità eluse. Sono la prova schiacciante che, prima ancora che dall'assassino, molte donne vengono abbandonate da chi diceva di essere loro amico o parente.

 

Ascolta il podcast sul Canale AIPC Editore su Spotify MENTE|CRIMINE|TRAUMA, La zona grigia del femminicidio” clicca sul link: https://open.spotify.com/episode/6Ouo5jdmmYDjZPsZExhW5N?si=28GZ5z-uSiusn0Jw8n3NnQ

 

Sezione 5: Dalla consapevolezza all'azione: un imperativo collettivo

L'analisi condotta converge verso una conclusione ineludibile: la lotta al femminicidio richiede un cambio di paradigma, passando da un approccio reattivo a un modello proattivo che identifichi l'inazione dei testimoni come un punto di intervento critico. Per trasformare una cultura del silenzio in una comunità di protezione attiva, è necessario agire su più fronti. A livello normativo, si potrebbe valutare l'introduzione di un "obbligo di segnalazione qualificato" per chi assiste a inequivocabili "reati spia", rafforzando al contempo le tutele per chi denuncia. Sul piano operativo, è cruciale rendere obbligatoria la formazione su strumenti come SCUDO e creare canali di ascolto "a bassa soglia" per facilitare le segnalazioni confidenziali. Ma la battaglia decisiva è quella culturale: servono campagne nazionali martellanti che demoliscano il mito della "questione privata", interventi mirati a ridefinire la responsabilità maschile e, soprattutto, l'introduzione obbligatoria dell'educazione affettiva e al consenso in tutte le scuole. Solo un'azione sistemica su questi tre livelli può sperare di sradicare le radici dell'indifferenza e trasformare il dovere morale di agire in una prassi sociale consolidata.

 

Conclusione

In conclusione, la catena della violenza che porta al femminicidio ha un anello debole: il silenzio di chi vede e tace. Le leggi esistono, i protocolli sono pronti, ma ogni strumento resta inerte se la conoscenza del pericolo muore nella coscienza di chi si volta dall'altra parte. Scegliere di non denunciare non è neutralità, è una decisione che concede all'aggressore il tempo di uccidere. Non esistono alibi morali di fronte a una vita spezzata: il dovere di agire non è un'opzione, ma l'unica scelta civile possibile per spezzare il ciclo dell'orrore.

 

Se ti riconosci in queste dinamiche, se sei vittima o testimone di una violenza che non sai come fermare, non restare nel silenzio. Chiedere aiuto è il primo passo per rompere la catena. Il Centro Italiano di Psicotraumatologia Relazionale (CIPR) offre percorsi specializzati per uscire dall'incubo della violenza.

I nostri professionisti a Pescara e Roma sono pronti ad ascoltarti e a fornirti il supporto necessario. Contattaci:

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Sito di riferimento: www.associazioneitalianadipsicologiaecriminologia.it

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